Giovanni Copelli è senza dubbio uno degli interpreti più affascinanti della pittura contemporanea italiana.
Nato nel 1989 a Correggio, dopo aver studiato all’Accademia di belle arti di Bologna e teoria dell’arte contemporanea al Goldsmiths di Londra ha iniziato a esporre in collettive e personali i risultati della sua ricerca pittorica, mettendo insieme in pochi anni un vasto numero di dipinti che colpiscono sia dal punto di vista tecnico che per la coerenza formale ed espressiva.
Giovanni Copelli ha costruito un immaginario personalissimo surfando liberamente su stili e modelli che coprono secoli della tradizione figurativa mediterranea.
di Riccardo Conti
Chi ha frequentato anche soltanto superficialmente la storia e la critica d’arte si ricorda di quante volte si sia vaticinata la morte della pittura, volendola rilegare ad atteggiamenti conservatori e passatisti dell’arte, con il risultato di averne rafforzato (oggi più che mai) la presenza e capacità di rigenerarsi di decade in decade. Quando ho visto la prima volta le opere di Giovanni Copelli ho capito che il suo mondo di riferimenti va oltre ogni manierismo e citazionismo, al contrario il suo attingere da varie fonti ne rivela l’identità profondamente contemporanea. Il suo piacere di guardare le cose, caricandole di un eros senza tempo e restituendocele in forme che hanno in purezza il desiderio: Qualcosa di estremamente raro nell’arte di oggi. Ne abbiamo discusso in questa intervista.
Che significato conferisci alla pittura nel tuo lavoro? Al di là della tecnica che senso dai a questa pratica?
Sono sempre stato interessato alla pittura, il mio interesse per l’arte da sempre coincide con l’interesse per la pittura. Posso dire di essere sempre stato attratto dai quadri: ricordo ad esempio un viaggio che feci a sei anni con i miei genitori a Vienna e la meraviglia che provai davanti ai quadri di Klimt. Ho sempre coltivato questo interesse anche se ci sono stati momenti di allontanamento da questa pratica durante la mia formazione per investigare altri linguaggi ma sono sempre stati interessi più intellettuali e non “viscerali” come con la pittura. Oggi sono tornato di più alla pittura come mezzo espressivo perché lo sento più vicino a me, alla mia natura e ancora di più sto cercando di imprimere una componente fisica, “di pancia” per sciogliere un po’ di nodi nel mio lavoro; sto cercando di spendermi ancora più fisicamente in quella direzione.
È forse una reazione spontanea a linguaggi e modalità sempre più virtuali e immateriali che caratterizzano la nostra esistenza?
Forse sì. Per me la pittura come la scultura sono sullo stesso piano, un certo modo di lavorare con le forme ma anche un modo di utilizzare le mani: di essere nell’azione e nella pratica e non solo nel pensiero e nell’intellettualizzazione dell’arte.
Nei tuoi soggetti rivivono brani di cultura figurativa che spaziano dal mondo ellenico al primitivismo, dal rinascimento al Novecento italiano alla Trasavanguardia e molto altro ancora: cosa rappresentano per te quei modelli?
Ho avuto di recente una conversazione con il curatore Guido Molinari, a proposito della riconoscibilità dei vari stili nei miei lavori: spesso quando qualcuno guarda i miei quadri li definisce citazionisti e ne valuta l’approccio intellettuale nell’impiego di quei modelli. Molinari sostiene invece che nel mio lavoro, e in quello di altri artisti della mia generazione, non ci sia effettivamente una logica citazionista o manierista come quella che poteva valere fino a poco tempo fa, ma invece una modalità molto più orizzontale e libera di muoversi tra i vari riferimenti. Mi rendo conto che a differenza di artisti del passato ho avuto l’opportunità di attingere a un “archivio” di esempi assai diverso dagli autori delle avanguardie ma anche da quelli degli anni Ottanta come il gruppo della Trasavanguardia, che da un certo punto di vista hanno avuto un atteggiamento anche provocatorio nel creare associazioni iconografiche con la pittura figurativa del passato. Nella fase in cui siamo c’è molta più libertà nell’attingere a un repertorio di immagini che vanno oltre la pittura, e tale liquidità in artisti della mia generazione ci permette di costruire associazioni in una modalità personale assai fluida senza sentire il peso letterale della “citazione”.
Quindi quando inizi una nuova opera non ti poni il problema di come quel riferimento visivo possa rimandare simbolicamente a un artista o un periodo storico?
Il mio approccio con gli stili e i vari registri è qualcosa che utilizzo in modo molto elastico, impiego spunti diversi senza dovermi preoccupare di mantenere una sorta di rigore stilistico, anzi: sono attratto molto dall’eterogeneità dei linguaggi pittorici. In questo senso mi interessa questa voracità che aveva la Trasavanguardia; l’andare oltre ai confini di una sola visione, per questo motivo mi affascina come periodo perché si è tentato di calciare la palla in avanti e tentare di sorpassare una certa ortodossia espressiva.
Le tue opere molto spesso divinità greche o santi, in particolare San Sebastiano e il suo corpo sagittato… per te che simboli sono?
Ci sono più livelli: da una parte mi interessa molto la storia dell’arte, alcune immagini che mi sono rimaste impresse, andando anche oltre il loro portato iconografico. Non mi interessa tanto la lettura simbolica o filologica di quei soggetti, sono più attratto dalla centralità del corpo, dell’anatomia che quelle figure esprimono. Mi interessa la rappresentazione formale, patetica del corpo, ad esempio nelle scene del martirio che più volte evoco nei miei quadri. Il martiro, come nel corpo trafitto di San Sebastiano è qualcosa che ovviamente ha consentito lungo la storia dell’arte di utilizzare il pretesto religioso o mitico per confrontarsi liberamente con le anatomie e anche con il portato visivo, sensoriale e immediato di quelle manifestazioni corporee. C’è poi nell’aspetto dell’erotismo una dimensione interrogativa verso quei soggetti: nel dipingerli cerco di arrivare all’essenza di quelle forme che nonostante i secoli conservano una parte di mistero.
A proposito di erotismo in soggetti come i martiri, dove il dolore diventa estasi c’è anche una componente personale?
Senza dubbio c’è una proiezione erotica nella figura arrendevole o nella figura costretta, incatenata. C’è qualcosa che mi affascina nella rappresentazione di un corpo erotico e sofferente, ma è qualcosa che personalmente va al di là del fascino verso modelli visivi legati alla tradizione omoerotica. Mi viene in mente ad esempio un soggetto che torna spesso nell’opera di Picasso: l’immagine di un volto di donna piangente. Picasso ci è ritornato su infinite volte come a volersi confrontare con quella figura, interrogandola attraverso il disegno e la pittura. Trovo che in queste rappresentazioni di sofferenza ci sia soprattutto una certa purezza. Mi piace anche mettere in dubbio ciò che rappresento, andando oltre al significato immediatamente comprensibile di ciò che mostrano.
Oltre ai corpi martoriati compaiono spesso anche soggetti più consuetamente erotici oltre al tema degli “amanti” dove traspare un vero e proprio piacere per quelle forme…
La componente erotica dei corpi è molto importante per me e mi ci confronto continuamente, alla base del mio interesse c’è ancora quella sensazione quasi scioccante che mi ha sempre accompagnato come visitatore fin da bambino: vedere soggetti pieni di vitalità erotica esposti platealmente come accade nei monumenti o in grandi musei istituzionali. Forse abbiamo perso l’adeguata sensibilità per recepirne la presenza, ma se ci si sofferma a guardarle sono figure assai cariche dal di vista sessuale. Ho sempre avvertito un grande carica erotica irradiarsi da queste figure del mondo classico e del Rinascimento. L’accademismo ottocentesco le ha dissanguate dal loro erotismo e per questo le avvertiamo come attenuate, o non le notiamo affatto.
In effetti quell’espressione libera dei corpi di matrice rinascimentale è stata poi estremamente raffreddata dagli artisti in epoca Romantica e Neoclassica.
Esatto, i paradigmi visuali dell’accademia hanno privilegiato aspetti più ideali o puramente tecnici di quei soggetti. Se invece per esempio ancora oggi si entra a Palazzo Tè è impossibile non sentire la vibrazione erotica di quegli affreschi
Vero, anche le rappresentazioni equine di Palazzo Tè trasudano sensualità…
Ecco la figura del cavallo non a caso è molto presente nei miei quadri. E sono sempre cavalli maschi, mi interessa palesarne il sesso rappresentandoli chiaramente con i loro organi genitali. Non tanto perché voglio alludere schematicamente a un’identificazione di genere ma perché cerco di esplicitare l’attrazione erotica primaria che sento verso quelle forme.
La stessa tensione si avverte anche nelle varie battaglie e negli amanti che rappresenti sempre in una dimensione temporale sospesa, ma fissate sostanzialmente in due dinamiche: scene marziali e accoppiamenti.
Anche in questo caso mi affascina il confronto con archetipi molto antichi, ad esempio guardo molto ai bassorilievi dei sarcofagi etruschi e romani: mi interessa il contrasto tra l’immobilità implicita nell’oggetto funerario e le scene di simposi o battaglie che le adornano ricche di dinamismo, e la paradossale staticità e silenzio evocata dai corpi degli amanti che giacciono insieme. Nel momento della coppia c’è questa sensazione psicologica di completamento, anche in artisti che hanno lavorato sull’astrazione come Henry Moore la coppia distesa, ritorna come protesto formale per definire delle forme che si intersecano e trovano un momento di pace, di equilibrio. Poi ci sono situazioni ibride che rappresentano punti di incontro tra questi due stadi opposti delle figure: una lotta può diventare un amplesso e un corpo morto steso può rappresentarsi come un amante arrendevole…
C’è in te la capacità di utilizzare tutti quei riferimenti formali non per parlare di erotismo in una forma remota, siderale, come il più delle volte accade nell’arte contemporanea quando tratta tali temi, ma di coinvolgere in primo luogo il tuo desiderio e quello dello spettatore nell’avventura del guardare.
Quando si tratta di arti visive, soprattutto antica, faccio fatica a mettermi a ragionare su un piano specifico della lettura della sessualità in chiave critica e analitica che porta probabilmente a quelle forme a cui accennavi. Sono approcci che a volte indubbiamente generano dei risultati molto interessanti, tuttavia attraverso i miei lavori ho sempre la speranza di rappresentare attraverso le forme qualcosa di più immediato ed empatico con i soggetti e con chi li osserva. Ovviamente i corpi acquistano inevitabilmente una lettura politica: c’è la questione del gender, della nudità, della sessualità e sono istanze che socialmente sono sempre molto investite di significato.
Pensi che questa scelta, diciamo in controtendenza, rispetto alla concettualizzazione di simili temi possa generare incomprensione verso il tuo lavoro?
Per il tipo di lavoro che porto avanti mi scontro a volte con letture piuttosto ambigue e molto critiche nei confronti di certe cose che faccio, anche solo perché a volte è considerato di “cattivo gusto”. Come se ancora si potessero usare simili categorie per inquadrare il lavoro di un artista oggi. Mi ha colpito in questi anni scoprire in me stesso e negli altri quanto sia profondo il rapporto con l’erotismo e la sessualità e quanto sia irrisolto, così come è irrisolto il nostro rapporto con le immagini.
Secondo c’è una continuità con le immagini erotiche che frequentiamo oggi oppure il sesso e la sua rappresentazione sono radicalmente cambiati? Perché scegli di rappresentare questi gesti e situazioni sempre in un mondo antico?
Noi ci nutriamo di pornografia e di immagini molto diverse. In quello che mostro, cerco però di pormi su un piano di interrogazione di questo e di quell’immaginario. Questo mondo classico che evoco mi permette di rintracciare una dimensione altra, ideale. Di praticare un distacco verso il reale verso un ideale che non c’è, un mondo potenziale e distante. Non sono sicuro che il mio mondo abbia a che fare con la vita reale. Posso anche inserire degli elementi legati alla contemporaneità quando dipingo, ma non penso mai di essere nel 2020 o in un momento specifico della storia… mi interessa più l’atemporalità.
Tempo fa parlammo appassionatamente delle nostre visite in luoghi come ad esempio la Casa Boschi Di Stefano a Milano e sulla potenza evocativa che ciascuna opera emana all’interno dell’allestimento complessivo e per certi versi scenografico, proprio di una collezione privata e di un’abitazione, rispetto al dispositivo del whitecube attraverso il quale solitamente vediamo l’arte…
Non voglio sembrare eccessivamente critico ma credo che tutto questo biancore clinico delle gallerie e gli spazi museali almeno negli ultimi cinquant’anni di mostre ci abbia abbagliato. Ovviamente quel dispositivo si è affermato nel tempo fino a diventare prassi per precise ragioni espositive. Tuttavia il “quadro” continua a descrivere uno spazio magico che ti permette di aprire finestre verso altre dimensioni. La maggior parte dell’arte contemporanea per esistere ha bisogno di un apparato scenografico, di creazione e virtualizzazione di un contesto scenico per esistere. Non ci prestiamo più troppa attenzione ma per esistere molte delle opere contemporanee hanno bisogno di una elaboratissimo apparato installativo, molto più del quadro-finestra che invece conserva una sua autonomia espressiva indipendentemente dal contesto.
Questa riflessione sta iniziando ad accompagnare nuove soluzioni da parte di alcuni artisti contemporanei della tua generazione che ridiscutono oggi quei modelli espositivi così come il valore decorativo delle opere.
Ultimamente ho realizzato delle decorazioni, in particolare sulla superfice di alcuni camini in case private, ecco: mi interessa molto questo aspetto della decorazione che interviene direttamente in una vera abitazione e non in modo non “simulato” all’interno di una galleria dall’estetica “white cube”.